In un panorama in continua evoluzione come quello dell’intelligenza artificiale, il Model Context Protocol (MCP) si sta ritagliando un ruolo sempre più centrale, pur restando, almeno per ora, una promessa più che una realtà consolidata. Cerchiamo di capire perché.
Che cos’è MCP e a cosa serve?
MCP è un protocollo di comunicazione, ovvero un insieme di regole che stabiliscono come un agente di intelligenza artificiale – ad esempio un chatbot o un sistema conversazionale avanzato – possa dialogare in modo ordinato e standardizzato con risorse esterne. Immaginate di voler collegare il vostro assistente AI preferito a Google Drive, a un gestionale per le fatture o perfino al sito del Comune che monitora il verde urbano. MCP definisce le regole di questo dialogo.
Un protocollo non è solo un “modo per far parlare due cose tra loro”, ma è soprattutto uno standard. E la standardizzazione, nel mondo digitale, è quello che ha reso possibile la nascita del web così come lo conosciamo: HTML e HTTP non sono altro che protocolli. MCP cerca di fare lo stesso, ma per gli agenti AI.
MCP: un nuovo HTML per l'intelligenza artificiale?
Proprio come HTML ha permesso a chiunque di costruire e pubblicare un sito visibile su tutti i browser, MCP potrebbe permettere agli sviluppatori di creare connessioni tra le AI e una miriade di sistemi software esistenti. E questa non è fantascienza: già oggi OpenAI e Anthropic lo stanno adottando nei loro ecosistemi.
Se tutto questo vi sembra familiare, è perché lo è. Siamo nel bel mezzo di una nuova ondata di standardizzazione. Ma MCP non è ancora pronto per il grande pubblico: è come avere una Ferrari in garage, ma senza la patente per guidarla.
Il client, il server e quella cosa complicata chiamata “handshake”
MCP funziona secondo una logica client-server. Da una parte c’è il client – ovvero l’agente AI – e dall’altra c’è il server, che espone funzionalità e risorse come file, operazioni (tool) o prompt predefiniti. È il server a dire: "Ecco cosa posso fare, ecco come devi chiedermelo". Il client, a quel punto, sa come interagire.
La comunicazione tra i due non è istantanea. Serve un handshake, una sorta di stretta di mano digitale che avvia la conversazione e stabilisce la sessione. Il protocollo è "stateful", ovvero mantiene uno stato della conversazione. Questo lo rende elegante, sì, ma anche complesso. A tratti, sembra uno di quei sistemi "troppo ingegnosi per il proprio bene".
Una rivoluzione… in versione beta
A oggi, le implementazioni reali di MCP si limitano in gran parte a configurazioni locali, dove sia il client che il server risiedono sullo stesso computer. Le implementazioni via HTTP – quelle che renderebbero realmente scalabile il sistema – sono ancora rare. Quindi, se vedete demo in cui Cloud si collega a Blender o Photoshop, sappiate che stanno girando in locale, e non sono ancora pronte per una distribuzione su larga scala.
Insomma, per ora MCP è come un’ottima ricetta scritta su un tovagliolo: bella, ambiziosa, ma ancora lontana dalla cucina stellata.
L’ambizione dietro il protocollo
Il valore reale di MCP è nella sua visione: non centralizzare l’intelligenza, ma decentralizzare l’integrazione. Le big tech non vogliono (né possono) integrare manualmente ogni singolo software gestionale o sistema legacy esistente. Ecco perché aprono il protocollo agli sviluppatori: perché siano loro – e qui il termine "crowdsourcing" è azzeccatissimo – a costruire le connessioni.
L’obiettivo non è tanto democratizzare l’intelligenza artificiale (anche se suona bene nei comunicati stampa), quanto ottimizzare tempi e costi: se mille sviluppatori integrano MCP nei loro strumenti, OpenAI non deve farlo mille volte.
Le criticità: standard aperti, ma non troppo
Dietro la facciata di protocollo “aperto”, MCP mostra già i segni di una filosofia molto orientata alla grande industria.
Ad esempio, nella gestione delle risorse, si dà per scontato che un file venga inviato interamente al language model, approccio che favorisce chi vende AI "a consumo" (più token, più incassi). Questo penalizza chi vuole adottare strategie più efficienti, come la segmentazione e l’indicizzazione dei contenuti (RAG – retrieval-augmented generation).
In pratica, il protocollo è pensato con l’idea che l’intelligenza resti centralizzata, nei data center di chi fornisce i modelli, mentre il lavoro sporco dell’integrazione venga distribuito. Un po’ come se ti offrissero la possibilità di usare una supercar, ma solo se ti occupi tu di asfaltare la strada.
Il potenziale futuro (spoiler: è enorme)
Nonostante tutto, MCP resta un’idea estremamente interessante. Se adottato su larga scala, potrebbe ridurre drasticamente il costo delle integrazioni software, accelerare l’adozione dell’AI in ambienti professionali e aprire nuovi orizzonti per chi sviluppa. Ecco perché progetti come Xerigrafo stanno valutando seriamente di diventare client MCP.
Ogni nuovo client è un passo verso un ecosistema più aperto, più interconnesso e – speriamo – meno soggetto alle logiche centralizzatrici delle grandi piattaforme.
Se siete arrivati fin qui, meritate un applauso. E forse anche una birra. Perché comprendere un protocollo come MCP oggi è un po’ come cercare di leggere uno spartito jazz senza sapere leggere la musica: serve pazienza, curiosità e un pizzico di follia. Ma anche la rivoluzione digitale, in fondo, è cominciata così.